Category Archives: nuovo giornalismo

#2013intweet, la timeline di un anno

lettarepubblicaDurante l’anno mi capita di archiviare centinaia di foto per la pubblicazione quotidiana su Twitter.
Scorrendo l’archivio qualche settimana fa mi sono capitati sotto gli occhi gli avvenimenti di cui si è parlato online nel 2013: quelli principali o meno noti, effettivamente pubblicati online o messi poi da parte.
Ho pensato allora di aggregarli tutti, pubblicandoli uno per uno in questi ultimi giorni dell’anno e raccogliendoli in una timeline personalizzata su Twitter (dove sennò).
Ecco 87 foto che in qualche modo raccontano il 2013, spero possa essere un utile ripasso per il 2014.

Twitter: i pensieri marginali che trasformano la sfera pubblica

Questo articolo è stato pubblicato in Niente di personale su l’Unità online il 23 aprile 2013 con il titolo “Twitter senza Twitter”.

Le riflessioni su Twitter e politica sono giunte a un momento culminante in questi giorni: Twitter (scambiato di volta in volta con la Rete, i Social Media e così via) ha condizionato l’elezione del Presidente della Repubblica?
Dopo il sostegno di molti gruppi online per Rodotà, dopo la chiamata su Internet a manifestare a Montecitorio, dopo l’occupazione di alcune sedi PD con l’hashtag #occupyPD, dopo la richiesta di Bersani ai suoi Grandi Elettori di tenere spenti smartphone e iPad nei momenti decisivi la questione è approdata al grande pubblico in maniera scomposta.
Questo dubbio rappresenta in maniera efficace quanto in fretta abbia bisogno di cambiamento questo Paese.
Dalla riflessione intelligente di Luca Sofri a quella, un po’ barcollante di Cesare Martinetti su La Stampa (i social network disturbano la democrazia? la Rete è un mezzo che impone la rapidità? politici sempre più vulnerabili alle ondate della Rete?), fino a Nicola Porro su Il Giornale che parla addirittura di dittatura della Rete dimenticando, ahimé, che non è stato mai eletto il suo ipotetico beniamino: Rodotà.
Insomma è colpa dell’età giovane dei neoparlamentari; anzi no è la Rete, questa astratta proterva minoranza nel Paese, che pretende di influenzare il Parlamento: tutto surreale.
Surreale quasi quanto il fatto che i critici più accesi in realtà non usino né conoscano Twitter.
Eppure questi discorsi tendono a formare nell’opinione pubblica più lontana da Internet (in Italia sono ancora tanti, troppi, è un limite) un’idea distorta di Twitter.

C’è un esempio a portata di mano che rende l’idea di cosa rappresenti Twitter oggi.
Il Foglio pubblica provocatoriamente lo scambio di SMS tra Christian Rocca, giornalista che da sempre scrive anche su blog e conosce i Social Media, e Giuliano Ferrara, senza dubbio non tenero nei confronti della Rete e dei processi politici in atto.
Gli SMS sono stati scritti tra mezzogiorno e le 13,30 di domenica durante la conferenza stampa di Grillo a Roma, la prima del leader M5S dall’inizio dell’impegno elettorale.
Al di là del merito, di cui non voglio occuparmi qui, lo scambio di messaggi è agile e veloce (e in poco più di 140 caratteri, anche se oggi gli SMS possono essere concatenati e raggiungere lunghezze rispettabili).
A un certo punto Ferrara sente l’esigenza di rendere pubblico quello scambio privato e chiede il permesso all’interlocutore.
Quindi una conversazione informale e privata, ancorché mediata tecnologicamente, diventa un fatto pubblico, può essere letta da altri, commentata, discussa.
Non è interessante il motivo di questa esigenza (riflessione politica? provocazione? narcisismo?) ma il fatto che esista: è un’esigenza di comunicazione.
Ecco Twitter è proprio questo, è il passaggio nella sfera pubblica di pensieri marginali che in un’altra epoca sarebbero rimasti nascosti, è la realizzazione di questa esigenza fino ad oggi celata.
Per fare un esempio nella vita quotidiana, è come se potessimo raccogliere tutte le battute mai fatte davanti a una tazza di caffé al bar.
Chi cerca di minimizzare Twitter parlando di volta in volta di narcisismo, patologia, opinionismo ecc. non ha torto (così come al bar se ne sparano di ogni tipo) ma sottovaluta enormemente l’effetto su tutto il resto dell’affiorare di un fenomeno del genere, un effetto che è già in atto ed è irreversibile.
L’emergere di questa nuova esigenza modifica la sfera pubblica stessa, la rimodella e attiva (per quanto incredibile possa sembrare) nuovi tipi di conoscenza, di relazione, di informazione collettiva.
E non è neanche necessario Twitter (la piattaforma online) per realizzare Twitter, come in questo caso.

Quindi dire che Twitter influenza i politici è una tautologia: certo che li influenza, come mille altre situazioni nella vita, e come influenza gli ingegneri e i fiorai.
Ma dire in quale misura, oltre ad avere poco senso, non è possibile perché non abbiamo ancora un modello di comprensione valido e abbastanza dati e forse non li avremo mai.
Per sempre più gente oggi Twitter (o la Rete, i Social Media) è un nuovo elemento culturale: è lì, ha il suo ruolo ma certamente non ipnotizza nessuno per fargli fare ciò che non vorrebbe.
Al contrario, in politica, rappresenta un fattore (minimo) di trasparenza e di controllo da parte dei cittadini.
Perciò bisogna smetterla di rappresentarlo come un “mezzo”, come un telefono, un telegrafo, uno strumento che possiamo decidere se usare o no, spento o acceso.
Non è così, Twitter (e la Rete) esiste e fa parte del mondo intorno a noi a prescindere dalla nostra volontà, anche se non lo usiamo o non lo conosciamo o viviamo da eremiti.
È  per questo che non ci si può più permettere, da parte di chi si occupa di comunicazione o di informazione, di ignorare cosa sta accadendo culturalmente o addirittura tentare di sabotare questi fenomeni.

Per chi ha tempo di approfondire consiglio:
– esempio negativo: Aldo Cazzullo fa la diretta per il Corriere dal Parlamento per l’elezione del Presidente della Repubblica via SMS. Perché non via Twitter? Sarebbe trasparente e pubblico, perché si cerca di evitare di contribuire a un interesse collettivo?
Ma subito dopo Cazzullo scrive sul Corriere della Sera un editoriale sui “nuovi politici in balia di un tweet” (che curiosamente non viene pubblicato online): che credibilità ha? a chi sta parlando? su questo tema cruciale esiste un giornalismo a due velocità?
– Giovanni Boccia Artieri: Twitter non sceglie il Quirinale. La generazione dei neo-eletti e la vigilanza civica.
– Massimo Mantellini: Tre argomenti contro.
– Fabio Chiusi: Twitter, il Colle e i tecnoschiavi.
– Giuseppe Granieri: Chi ha paura di Twitter?

un’informazione #DigitalFirst col finanziamento @Pubblico, la via italiana?

A poco più di tre mesi dalla sua uscita in edicola Pubblico, il quotidiano fondato da Luca Telese, annuncia lo stop alle pubblicazioni.
Non sappiamo se e come sarà salvato nel 2013, se proseguirà online ma l’ultimo numero stampato per ora sarà quello del 31 dicembre.
In realtà neanche oggi sarà in edicola perché la redazione è entrata in sciopero.
Già nei giorni scorsi Telese aveva dato l’allarme chiedendo uno sforzo ai lettori e sostenitori e spiegando cosa stesse accadendo.
In estrema sintesi, gli obiettivi per la parte digitale erano in linea con le previsioni (soprattutto per la parte di advertising) mentre dopo il primo mese il calo delle vendite cartacee e degli abbonamenti è stato consistente, portando lontano dal punto di sopravvivenza.
Ora molti si chiedono come sia possibile che in soli tre mesi un quotidiano fallisca la sua impresa e puntano il dito contro il business plan. Continue reading

Snow Fall, la vera valanga sull’editoria giornalistica online

In queste ore sta destando ammirazione il pezzo multimediale “Snow Fall” di John Branch pubblicato sul sito web del New York Times.
È il racconto sui sopravvissuti a una terribile valanga a Tunnel Creek sulle Cascade Mountains nello Stato di Washington, nel febbraio 2012.
Non si tratta del solito articolo con il formato ereditato carta, più o meno adattato alla lettura su web e ottimizzato per advertising e motori di ricerca, ma di una narrazione testuale integrata strettamente con contributi multimediali (video, interviste, ricostruzioni, foto).
Il risultato non è appesantito, come spesso avviene in progetti di questo tipo, stupisce per la scorrevolezza su ogni device ed è piacevole, quindi informativo.
Inevitabile, quindi, la domanda che corre online se questa possa essere una strada valida per i nuovi modelli di business giornalistici digitali. Continue reading

#Primarie e Social Media: la nascita nuovi modelli e la predizione del voto

Dopo il risultato delle Primarie del Centrosinistra la luna di miele tra i Social Media e la politica in Italia sembra già essere finita.
Il candidato con meno appeal online, stando ai parametri più quantitativi, non solo vince a man bassa (60 a 40) ma in realtà secondo i sondaggi non è mai stato in discussione.
Ora c’è chi si affretta a dire che non solo la comunicazione online non sposta voti ma si dubita che possa avere qualche presa sul “Paese reale”, a giudicare dalla fetta di elettorato considerato storicamente più evoluto dal punto di vista dell’uso delle tecnologie.
Tutto era iniziato, in Italia, col referendum su acqua e nucleare a giugno 2011, snobbato come tante altre volte dai dirigenti dei partiti e dai mass-media ma giunto al successo anche grazie al passaparola online. Continue reading

il citizen journalist che fa bene all’editoria è quello credibile

Questo articolo è stato pubblicato in Niente di personale su l’Unità online il 20 novembre 2012 con il titolo “il citizen journalist da Gaza che si fa pagare in beneficenza”

La guerra a Gaza da una settimana ha già fatto più di centoventi morti tra i palestinesi e una decina tra gli israeliani.
In una situazione del genere fare informazione non è semplice, l’accesso dall’esterno è complicato, il lavoro degli inviati già presenti deve essere cauto per i bombardamenti.
È uno di quei casi in cui il lavoro del citizen journalist può aiutare, completare, arricchire l’informazione come accadde con le rivolte in Iran nel 2009.
Quando i movimenti sono limitati e i mezzi tecnici incerti il giornalismo dal basso può offrire un contributo attivo più importante, al di là del punto di vista, rispetto alle situazioni in cui l’accesso alle informazioni è universale e quindi la propaganda, di ogni segno, è più forte.
È il punto di vista che informa, nonostante tutto, e che si sta rivelando prezioso anche in questo caso a Gaza.

Tra i tanti attivisti sul campo che stanno raccontando la vita e la morte a Gaza sotto i bombardamenti uno dei più popolari è l’inglese Harry Fear, documentarista e attivista che si trova attualmente nella Striscia di Gaza.
Harry cura da maggio 2012 il progetto GazaReport.com per documentare “gli abusi di Israele sui palestinesi e la realtà di Gaza” e ha raccolto velocemente online 3500$ (più di quanti ne chiedesse) per coprire le spese, tornare lì dall’inizio di questo mese per fare volontariato e documentare la situazione.
Send me back, chiedeva, e molti follower gli hanno creduto soprattutto perché nel suo primo viaggio in giugno aveva già prodotto ben 8 mini-documentari, uniche testimonianze in inglese nel periodo successivo ai raid dei droni israeliani, mentre si pagava le spese lavorando come insegnante d’inglese.
Un esempio di credibilità, invece che di audacia e autopromozione, che ha ulteriormente ripagato i suoi lettori.
Proprio nel mezzo del suo viaggio si acuisce la crisi a Gaza ed Harry diventa un punto di riferimento per le notizie dalla Striscia.
Aggiorna costantemente su TwitterFacebook, mette su un canale su Livestream in cui fa frequenti dirette video (toccante quella di oggi in cui elenca tutti i morti palestinesi per nome ed età) che raccoglie in due giorni 47.000 Like e 20.000 tweet con più di 400.000 visualizzazioni.
Finché anche i canali broadcast se ne accorgono, Russia Today (canale all-news in inglese, vicino al governo russo) gli chiede di ingaggiarlo ed Harry fa una cosa saggia: chiede ai suoi follower (in particolare palestinesi) su Twitter e su Facebook (con un sondaggio) cosa fare.

 

La risposta è ampiamente positiva:

 

Ed eccolo far parte del programma CrossTalk, a cui aveva già partecipato, per portare il punto di vista della gente di Gaza.

È il futuro del giornalismo?
No, nonostante i timori l’informazione non si ridurrà ad essere poco più che volontariato e non sarà dominata dai punti di vista divergenti degli attivisti che, in un modo o nell’altro, se lo potranno permettere.
Oggi abbiamo, però, delle interessanti testimonianze che fino a qualche anno fa sarebbero state impossibili e che i giornalisti devono saper selezionare, valutare, dominare, usare, valorizzare, prendendosene la responsabilità come nuovo compito.
Non basta prendere qualcuno che ha racimolato decine di migliaia di follower, fargli fare qualcosa che suona alla moda e sperare che vada tutto bene.
I cambiamenti importanti di cui siamo testimoni rendono necessario aggiungere alla cassetta degli attrezzi di chi fa informazione uno strumento fondamentale: la credibilità.
Non è più l’emanazione diretta dell’autorevolezza giornalistica di vecchia data ma una condizione attiva e valutabile continuamente.
I lettori oggi controllano, ricordano, verificano, spesso gli stessi lettori sono autori altrove, i ruoli si scambiano e bisogna saper mantenere il valore di quello che si fa, perché non è più ovvio per nessuno.
È quello che Harry riesce a fare e su cui, poi, un broadcast può costruire informazione.

I singoli punti di vista informativi dei citizen journalist sono degli elementi che possono essere preziosi e vanno considerati ma per diventare giornalismo devono essere, oggi ancor di più, selezionati ed elaborati da un editore in modo da continuare ad avere un senso ed un contesto.
Proprio come ha fatto Russia Today con Harry Fear.
Questo è il modo in cui si dovrebbe evolvere l’editore tradizionale per contribuire a rendere il giornalismo ancora un business utile e sostenibile in futuro.

Google svela i suoi micropagamenti: rivoluzioneranno il giornalismo online?

Quello dei pagamenti dei contenuti digitali è da sempre il nodo cruciale per il superamento dei vecchi modelli di business per l’editoria online e lo sviluppo di quelli nuovi.
L’uso di veri micropagamenti è sempre stato considerato il punto di svolta, in questo senso e oggi Google può aver cambiato il corso degli eventi.

Il vecchio modello del “tutto compreso”, così naturale per i supporti del secolo scorso (non si può acquistare solo una sezione o una pagina di un quotidiano di carta e neanche avrebbe senso), si è trasformato online gradualmente nel modello del paywall.
Insomma non si può acquistare solo una sezione di un quotidiano di carta, una pagina di un altro, una copertina di un magazine, un editoriale di un mensile e neanche avrebbe senso farlo: nel mondo fatto di atomi o si acquista tutto o nulla.
Questo ha sempre implicato una certa rigidità nell’offerta e nella dieta informativa dei lettori.
Esistono lettori affezionati, forti identità di testata, c’è un limite fisico alla diffusione dei contenuti e c’è anche una certa forma di upselling forzato dei contenuti: se compro un quotidiano di carta per leggere il mio editorialista preferito, probabilmente sto pagando anche altra informazione di qualità molto inferiore.
Nel mondo degli atomi non si esce da questo schema classico e ancora oggi è il modello di riferimento per il business. Continue reading

il falso equilibrio nel giornalismo e la linea editoriale

La questione del falso equilibrio nel giornalismo credo che riassuma bene l’essenza del cambiamento che sta vivendo l’informazione, anche a causa dei Social Media.
Non a caso se ne parla sempre di più ultimamente, soprattutto in USA, come segnala un’ottima riflessione di Luca Sofri, molto meno – ahimè – in Italia.
Il falso equilibrio consiste nel rappresentare giornalisticamente due tesi opposte sullo stesso piano a prescindere dalla verifica dei fatti.
L’equidistanza e l’equilibrio come virtù superiore al fact-checking.
Ne è un esempio la litania delle opinioni dei nostri politici sul tema del giorno, mostrate in sequenza senza contraddittorio, sulle TV di Stato o generalmente i confronti tra i discorsi dei candidati presidenziali democratici e repubblicani sui media americani.

Questo atteggiamento che poteva sembrare persino conveniente nel giornalismo del secolo scorso, dove l’accesso alle fonti era riservato a pochi e la centralizzazione del processo giornalistico la faceva da padrone, oggi è detestato dai lettori e telespettatori.
Questi ultimi – e tutti noi – grazie all’accesso diffuso alle fonti, sono in grado di andare a verificare le affermazioni o, meglio, trovano facilmente online chi l’ha già fatto per loro.
Migliaia di blog e profili Twitter si occupano quotidianamente di questo, costituendo un nuovo tessuto informativo, ma ci sono esempi più strutturati come PolitiFact.com, condotto dal Tampa Bay Times (vincitore di un Pulitzer nel 2009), o Factcheck.org o persino un progetto destinato a verificare articolo per articolo un solo quotidiano, il New York Times Examiner.

A questo punto la questione diventa: basta tutto questo a migliorare il giornalismo o è solo l’allineamento dell’offerta a una nuova domanda?
In altre parole, chi verifica il fact-checker? Quanto deve essere lunga la catena di verifiche oggi per considerare un risultato accettabile?
Ultimamente nel valutare il fact-checking riserviamo più attenzione al “checking” e meno al “fact”.
Il primo è alla portata di tutti ma il secondo richiede una visione più ampia, quella del giornalista appunto.
L’accezione di ciò che può essere validamente considerato “fatto” si è indubbiamente allargata, a causa della tecnologia e delle interazioni online, e non dipende più solo da chi lo riporta.
È un fatto non più solo il risultato di un reporter o di un’Agenzia ma anche quello di un cittadino comune che scatta casualmente una foto, per esempio, di un aereo che atterra nell’Hudson a New York.
È un fatto sia la testimonianza oculare di un attivista durante le proteste in piazza Tahrir al Cairo sia il report di un giornalista nella stessa piazza che non ha visto quella cosa ma riporta una visione più ampia.
Ed è un fatto anche la dichiarazione ufficiale di un regime, in contrasto con entrambe.
Il rapporto tra fatti e verità dei fatti diventa molto più complesso e meno lineare.
Oggi racchiudere tutto in un’unica storia è quasi impraticabile, si possono al più raccontare molte storie o cercare di unire tutti i puntini.

L’altro fattore cruciale è il tempo.
Il fact-checking più profondo è generalmente dispendioso in termini di tempo: come si può produrre oggi una buona informazione verificata in un tempo accettabile?
L’informazione non deve rinunciare ad essere tempestiva solo perché esistono Twitter e Facebook ma deve poter scegliere subito la strada più adatta partendo da pochi elementi.

Queste questioni appaiono irrisolvibili ma in realtà una strada ci sarebbe, consiste in una forte affermazione di trasparenza verso il lettore derivante da una linea editoriale ben inquadrata.
La linea editoriale oggi viene usata molto spesso per posizionarsi esternamente al sistema informativo (soprattutto verso i poteri politici ed economici) o risultando abbastanza generica da permettere di avere ampli margini.
Con una linea editoriale chiaramente posizionata si possono selezionare i fatti, verificarli, assemblarli in una narrazione piuttosto rapidamente, individuare subito una strada di approfondimento e verifica.

Naturalmente il prezzo da pagare per risolvere questo dilemma è alto e non tutti i produttori di news sono disposti a farlo.
Non si tratta di assumere posizioni estreme o irresponsabili ma si tratta di ridimensionarsi dentro una rete, mostrarsi per quello che si è, di accettare di non essere più al centro del mondo ma di essere un mattone di un edificio, di non pretendere più di fornire ai lettori una visione universale ma una visione possibile tra tante nel mondo.