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Quello dei pagamenti dei contenuti digitali è da sempre il nodo cruciale per il superamento dei vecchi modelli di business per l’editoria online e lo sviluppo di quelli nuovi.
L’uso di veri micropagamenti è sempre stato considerato il punto di svolta, in questo senso e oggi Google può aver cambiato il corso degli eventi.
Il vecchio modello del “tutto compreso”, così naturale per i supporti del secolo scorso (non si può acquistare solo una sezione o una pagina di un quotidiano di carta e neanche avrebbe senso), si è trasformato online gradualmente nel modello del paywall.
Insomma non si può acquistare solo una sezione di un quotidiano di carta, una pagina di un altro, una copertina di un magazine, un editoriale di un mensile e neanche avrebbe senso farlo: nel mondo fatto di atomi o si acquista tutto o nulla.
Questo ha sempre implicato una certa rigidità nell’offerta e nella dieta informativa dei lettori.
Esistono lettori affezionati, forti identità di testata, c’è un limite fisico alla diffusione dei contenuti e c’è anche una certa forma di upselling forzato dei contenuti: se compro un quotidiano di carta per leggere il mio editorialista preferito, probabilmente sto pagando anche altra informazione di qualità molto inferiore.
Nel mondo degli atomi non si esce da questo schema classico e ancora oggi è il modello di riferimento per il business.
Nel mondo digitale online però tutto questo cambia.
Qui ognuno può scegliere solo i contenuti che preferisce, da più fonti, e costruirsi di fatto la sua dieta informativa personalizzata.
Non c’è bisogno di aggiungere quanto questo sia potenzialmente sconvolgente (e lo è davvero) per il settore.
La reazione iniziale, quindi, fu quella di concedere tutto gratuitamente.
Il modello tutto-gratis esiste semplicemente perché non si vedeva alcuna conveniente alternativa e quindi offrire i contenuti digitali in offerta a quelli cartacei sembrava un’idea interessante.
Il sito web era di fatto un gadget dei veri contenuti su carta, come i libri e le video cassette, e permetteva di raccogliere pubblicità, in perfetta linea col modello classico.
Ancora oggi molte testate vanno avanti così.
Uno spiacevole effetto collaterale è che questa impostazione aumenta il potere dell’editore rispetto al giornalista, abbassando i prezzi e la qualità.
Quando ci si lamenta che i giornalisti vengono pagati pochi spiccioli a pezzo la colpa non è di chi è disposto a scrivere quasi gratis ma dell’editore che adotta questo modello.
Col tempo il crollo del mercato pubblicitario, la crisi e i maggiori costi hanno spinto verso una piena implementazione del modello classico attraverso il meccanismo del paywall: se non paghi, non leggi.
Sono state escogitate numerose soluzioni per ammorbidire l’impatto sui lettori ma nessuna di queste è risultata davvero efficace: perché chi prima leggeva gratis online ora dovrebbe pagare?
Perché si può scegliere accuratamente online cosa leggere e cosa no ma bisogna lo stesso pagare tutto?
La soluzione, da sempre, è rendere granulari anche i pagamenti, non solo i contenuti, con i micropagamenti.
Un lettore potrebbe acquistare solo un editoriale e un articolo di cronaca e questo spingerebbe a migliorare la qualità e concentrarsi su quello che si sa fare meglio.
Naturalmente l’importo di questi singoli contenuti sarebbe molto basso rispetto alle cifre che siamo abituati oggi a scambiare, da cui il nome di micropagamenti.
Questo è uno dei motivi per cui fino ad oggi è stato difficile vederli utilizzati su larga scala, perché i fornitori di servizi bancari non ne vedevano la convenienza e continuavano a imporre commissioni relativamente alte.
In realtà quando si supera la massa critica il sistema diventa conveniente anche per loro.
Un esempio è l’App Store di Apple in cui si possono fare acquisti di centesimi e che sarà sempre più il modello per ogni market lock-in.
Un altro tentativo è stato quello di coinvolgere i gestori di telefonia mobile per realizzare micropagamenti su web scalandoli dalla bolletta o dal credito.
Ma il problema di questo approccio è che è di fatto scomodo se non si è su smartphone e che ha effetto su ambiti differenti: che succede se per leggere il mio articolo preferito esaurisco il credito utile a ricaricare un servizio di telefonia che mi serve?
L’approccio che coniuga massa critica e piattaforma software su web probabilmente è quello che sta preparando da tempo Google col suo Wallet e che ha svelato oggi per i contenuti digitali.
Basta fare un giro su uno dei siti web che lo sperimenta per rendersene conto.
C’è una piccola parte di contenuto gratuito all’inizio, il resto viene criptato e si chiede il pagamento col sistema Wallet per leggere il resto.
Non solo, esiste un meccanismo di rimborso istantaneo: se non si apprezza il contenuto che si è letto si può chiedere il rimborso entro 30 minuti.
Si tratta di un grande vantaggio per il lettore rispetto, per esempio, a meccanismi su web di crowdfunding che molto spesso non prevedono alcun rimborso, neanche dal punto di vista tecnico.
Per ora l’impressione è che le cifre non siano ancora realmente basse a piacimento (infatti i siti di esempio riguardano articoli scientifici che di solito hanno un costo non irrilevante) ed è ignota la commissione che viene trattenuta da Google ma la strada sembra quella giusta.
Forse la svolta verso nuovi modelli di business editoriali è vicina.
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