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La questione del falso equilibrio nel giornalismo credo che riassuma bene l’essenza del cambiamento che sta vivendo l’informazione, anche a causa dei Social Media.
Non a caso se ne parla sempre di più ultimamente, soprattutto in USA, come segnala un’ottima riflessione di Luca Sofri, molto meno – ahimè – in Italia.
Il falso equilibrio consiste nel rappresentare giornalisticamente due tesi opposte sullo stesso piano a prescindere dalla verifica dei fatti.
L’equidistanza e l’equilibrio come virtù superiore al fact-checking.
Ne è un esempio la litania delle opinioni dei nostri politici sul tema del giorno, mostrate in sequenza senza contraddittorio, sulle TV di Stato o generalmente i confronti tra i discorsi dei candidati presidenziali democratici e repubblicani sui media americani.
Questo atteggiamento che poteva sembrare persino conveniente nel giornalismo del secolo scorso, dove l’accesso alle fonti era riservato a pochi e la centralizzazione del processo giornalistico la faceva da padrone, oggi è detestato dai lettori e telespettatori.
Questi ultimi – e tutti noi – grazie all’accesso diffuso alle fonti, sono in grado di andare a verificare le affermazioni o, meglio, trovano facilmente online chi l’ha già fatto per loro.
Migliaia di blog e profili Twitter si occupano quotidianamente di questo, costituendo un nuovo tessuto informativo, ma ci sono esempi più strutturati come PolitiFact.com, condotto dal Tampa Bay Times (vincitore di un Pulitzer nel 2009), o Factcheck.org o persino un progetto destinato a verificare articolo per articolo un solo quotidiano, il New York Times Examiner.
A questo punto la questione diventa: basta tutto questo a migliorare il giornalismo o è solo l’allineamento dell’offerta a una nuova domanda?
In altre parole, chi verifica il fact-checker? Quanto deve essere lunga la catena di verifiche oggi per considerare un risultato accettabile?
Ultimamente nel valutare il fact-checking riserviamo più attenzione al “checking” e meno al “fact”.
Il primo è alla portata di tutti ma il secondo richiede una visione più ampia, quella del giornalista appunto.
L’accezione di ciò che può essere validamente considerato “fatto” si è indubbiamente allargata, a causa della tecnologia e delle interazioni online, e non dipende più solo da chi lo riporta.
È un fatto non più solo il risultato di un reporter o di un’Agenzia ma anche quello di un cittadino comune che scatta casualmente una foto, per esempio, di un aereo che atterra nell’Hudson a New York.
È un fatto sia la testimonianza oculare di un attivista durante le proteste in piazza Tahrir al Cairo sia il report di un giornalista nella stessa piazza che non ha visto quella cosa ma riporta una visione più ampia.
Ed è un fatto anche la dichiarazione ufficiale di un regime, in contrasto con entrambe.
Il rapporto tra fatti e verità dei fatti diventa molto più complesso e meno lineare.
Oggi racchiudere tutto in un’unica storia è quasi impraticabile, si possono al più raccontare molte storie o cercare di unire tutti i puntini.
L’altro fattore cruciale è il tempo.
Il fact-checking più profondo è generalmente dispendioso in termini di tempo: come si può produrre oggi una buona informazione verificata in un tempo accettabile?
L’informazione non deve rinunciare ad essere tempestiva solo perché esistono Twitter e Facebook ma deve poter scegliere subito la strada più adatta partendo da pochi elementi.
Queste questioni appaiono irrisolvibili ma in realtà una strada ci sarebbe, consiste in una forte affermazione di trasparenza verso il lettore derivante da una linea editoriale ben inquadrata.
La linea editoriale oggi viene usata molto spesso per posizionarsi esternamente al sistema informativo (soprattutto verso i poteri politici ed economici) o risultando abbastanza generica da permettere di avere ampli margini.
Con una linea editoriale chiaramente posizionata si possono selezionare i fatti, verificarli, assemblarli in una narrazione piuttosto rapidamente, individuare subito una strada di approfondimento e verifica.
Naturalmente il prezzo da pagare per risolvere questo dilemma è alto e non tutti i produttori di news sono disposti a farlo.
Non si tratta di assumere posizioni estreme o irresponsabili ma si tratta di ridimensionarsi dentro una rete, mostrarsi per quello che si è, di accettare di non essere più al centro del mondo ma di essere un mattone di un edificio, di non pretendere più di fornire ai lettori una visione universale ma una visione possibile tra tante nel mondo.
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