i Social Media fanno piccoli numeri? e con quali metriche li stiamo misurando?

È la considerazione prima in classifica tra i top manager italiani, soprattutto di chi è vicino al mezzo televisivo: “i Social Media? sì molto belli, ma sono numeretti“.
Eppure vediamo sotto i nostri occhi cambiamenti rilevanti dovuti a Internet, nell’informazione (dall’Iran a Wikileaks), nella politica (quando vediamo scendere in piazza un milione di persone che si sono dati appuntamento su Facebook), nella vita privata (quanti non danno più il cellulare ma il contatto Facebook?) e così via.
Sembra un fenomeno imperscrutabile ma di cui abbiamo la certezza di un’affermazione futura.
In realtà i Social Media stanno già cambiando la nostra vita, il mercato, i comportamenti d’acquisto solo che non abbiamo ancora strumenti univoci per misurarlo come accade per la TV.
La TV ha caratterizzato un’epoca, ha segnato l’affermazione della comunicazione di massa (e della cultura di massa) ma ora viene affiancata da un altro mezzo, Internet, che non la sostituisce (non punta a sostituire alcun media) ma la cambia.
Stiamo passando dall’era dell’audience all’era dei gruppi sociali.

Lo spunto a scrivere questa riflessione (che poi è uno dei mie argomenti preferiti ultimamente) mi è venuta da un tweet di Andrea Prandi, capo della comunicazione di Edison (azienda che ha un ottimo profilo twitter, inserito da tempo nella mia lista twitter di brand italiani virtuosi) e comunicatore di esperienza:

Le elezioni non si vincono su facebook. Questo il mio pensiero. http://tinyurl.com/374bk7q #in
@andreaprandi
Andrea Prandi

Le elezioni non si vincono su Facebook, siamo d’accordo, ma non si vincono più solo sulla TV.
È questa la grande novità: c’è qualcos’altro.
Allo stesso modo i prodotti, sì persino i prodotti di massa, le commodity, non si vendono più solo grazie alla TV: i media si sono integrati e cambiano, la radio è addirittura rinata grazie a Internet e i quotidiani si salveranno.

Rimane la domanda: “quanto vale questa roba qui? Che potere ha la rete?”
Qualunque valore abbia non possiamo misurarlo con le metriche che abbiamo usato fino ad oggi per i mass-media.
Bersani fa la sua proposta per il nuovo Ulivo e ottiene solo 50 “mi piace”? Se quei 50 fossero la sua rete sociale avrebbe ottenuto l’unanimità.
Ma quanti lo hanno condiviso? quanti ne hanno parlato? quanti lo hanno citato? ognuno nelle proprie reti sociali.
A un’azienda potrebbe sembrare assurdo investire per un gruppo sconosciuto di 50 persone. ¬†Ma se ognuna di quelle 50 partecipasse a un ulteriore gruppo sociale di altri 50 e condividesse il messaggio?
In una sola mossa siamo già a 2500 persone.
E se a loro volta i nuovi gruppi condividessero il messaggio con i loro ulteriori gruppi?
In pochi passaggi (meno di sei) arriveremmo all’intera popolazione.
Ecco un buon motivo per cui un’azienda dovrebbe investire su quelle 50 persone, o meglio sulle persone più importanti in ogni gruppo.

Fino ad oggi abbiamo misurato il successo sul modello dell’audience, da uno a molti: c’è uno che parla e molti lo ascoltano muti, noi possiamo misurare quanti paia di occhi sono lì a guardare, contandoli uno per uno o facendo una stima su un panel (come fa l’Auditel).
Il giudizio del singolo spettatore è irrilevante, l’interazione con la massa è asincrona: dopo l’evento si sonderà il consenso.
Ora il modello si sta ribaltando completamente, l’audience (con tutti i suoi segmenti) è esplosa in mille galassie.
Ne vediamo l’effetto nella musica, nelle mode, negli stili di vita, nelle nuove culture.
L’opinione di una persona in un piccolo gruppo può essere rilevante nella misura in cui permette al messaggio di propagarsi positivamente o negativamente.
La qualità del prodotto e l’esperienza del consumatore diventano importanti quanto il brand.

Non ha più senso contare le persone, contare i fan di una pagina Facebook, contare i follower su Twitter, contare i “mi piace”.
Ha importanza capire come l’interazione plasma e modifica il messaggio, e abbiamo già molte regole empiriche sperimentate (N.d.L.: per cui è inutile tentare di reinventare la ruota, basta chiedere a chi ne ha esperienza).
Certo, non abbiamo ancora una teoria numerica consolidata da mostrare univocamente nei grafici delle riunioni perché la complessità è aumentata.
Stiamo passando, metaforicamente, dalla meccanica newtoniana alla meccanica quantistica e ci vuole tempo per le certezze numeriche.
Ma il business di successo non è sempre scienza: è strategia, lungimiranza, intuito
Ecco perché ora la qualità sta diventando più importante della quantità. In fin dei conti è un corollario della teoria della coda lunga.
E se voglio vendere “una Coca-Cola o un telefonino e finanche un po‚Äô di energia”?
Oggi puoi scegliere se venderlo a una massa indistinta che si sente sempre più stretta nel ruolo che gli ritaglia il modello dell’audience o se venderlo a migliaia di gruppi interconnessi di amici.
O a entrambi, perché no.


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5 thoughts on “i Social Media fanno piccoli numeri? e con quali metriche li stiamo misurando?

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  2. antonio pavolini

    guarda, proviamo a fare uno anzi due passi indietro.
    se anche non ci fosse all’orizzonte un business dei social media, anche se la casellina “ricavi” risultasse vuota o misera (“numeretti” o “peanuts”, come dicono qui da noi)…
    e (secondo passo indietro) se i grandi fenomeni che citi tu fossero solo dei “casi”, della “eccezioni”, e non una “futura e probabile regola”….allora che significa, che il mondo degli investimenti in comunicazione e pubblicità deve rimanere com’è? perchè è questo, se non si fosse capito, l’obiettivo dei comunicatori d’azienda: mantenere tutto com’è. Un unica catena del valore, un sostanziale monopolio della raccolta pubblicitaria, pochissimi centri media (tutti d’accordo tra loro) un solo auditel/nielsen(IAB Forum) i cui consorziati sono…i top spender! (alla faccia dell’indipendenza e della credibilità dei dati)… persino gli editori (FIEG) e le PR (Ferpi) sono tutti d’accordo. Anche i centri media (che – manco a dirlo – sparirebbero d’incanto) sono un monopolio, figurarsi se sponsorizzano un futuro dove tutti vivrebbero benissimo senza di loro…Meglio continuare a vivere, anche se c’è la crisi, con il 60% dei soldi vecchi (perchè cambiare costa) piuttosto che imbarcarsi in un nuovo ecosistema che – come dici tu – non sostituisce il vecchio, ma si affianca, sottraendo progressivamente eyeballs e audience. sì, audience. perchè questo è l’argomento che li preoccupa, le cose che dici tu non le capiscono nemmeno. Per fortuna che le capiscono i miei ragazzi del Master MUMM che prenderanno il loro posto 🙂
    dicevo, cambiare costa. ma questa gente non sa su quanti intermediari e su quanti costi inutili si fonda il “sistema attuale della gestione dell’attenzione”. In sostanza, sono spaventati dai costi del cambiamento non in quanto tali, ma in virtù del fatto che quei costi sono il loro pane, mentre il costo del cambiamento sarebbe il pane di qualcun altro 🙂 e se i ricavi sono peanuts, come adsense ha dimostrato se tu sei capace di aggregare tante peanuts, tutte insieme queste peanuts sono ricavi che (a costi marginali minimi) danno profitti. E’ chiaro che il costo marginale delle campagne tradizionali (pensa alle affissioni 3×2, o banalmente agli spot televisivi) è tale che solo ricavi stellari (quelli che si stanno erodendo) giustificano l’investimento. Queste sono le vecchie metriche. E questo spiega la resistenza al cambiamento.

  3. ticho

    la tua riflessione è appena arrivata in Slovacchia. e mi piace cosi tanto che verrà tradotta! Altro che televisione…

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