il valore condiviso dell’informazione e il caso Reporter di Repubblica.it


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La vicenda di Reporter, un’iniziativa di Repubblica.it che prevede contributi diffusi, già simile ad altre nel mondo, e delle polemiche e i dubbi sulla remunerazione dei partecipanti mette a nudo una zona grigia di passaggio dai modelli editoriali economici a cui eravamo abituati a quelli nuovi.
Innanzitutto il tema del precariato nel giornalismo è reale e molto serio.
Alcuni editori sfruttano un’incerta sovrabbondanza di offerta per sottopagare e sfruttare, altri si fanno semplicemente trasportare dal “mercato” senza opporsi, i vecchi pilastri come la carta, la pubblicità e i finanziamenti languono.
Non c’è bisogno di aggiungere che questo meccanismo oltre a non tutelare i lavoratori genera pessima informazione e quindi danneggia l’interesse pubblico.
Dall’altra parte una grande massa di appassionati ed entusiasti (ex) lettori immette volontariamente e continuamente materiali interessanti e liberamente fruibili.
Le iniziative e i contenuti dei citizen journalist sono spesso sostenuti e amplificati con la stessa passione dagli altri, a volte persino dai mezzi stampa, ma non è chiaro in cambio di cosa o di quanto.
Abbiamo due situazioni che da sole sono insostenibili è inevitabile che cerchino un punto di incontro.
Il problema è: su quale base di remunerazione?
Parliamo solo di denaro?

È indubbio che i Social Media abbiano reso più evidenti meccanismi di valore che prima erano nascosti.
La relazionalità, la reputazione, le amicizie, l’autopromozione ora sono elementi di scambio più evidenti ma non bastano.
Se vogliamo che un modello economico sia sostenibile c’è bisogno anche di un corrispettivo finanziario.
Non per tutti (per chi ha già un altro lavoro) e non con gli stessi livelli del passato, perché la somma complessiva si arricchisce di nuovi elementi, ma ci deve essere.
Sempre più editori tradizionali vogliono spostarsi in questi nuovi territori, come possono aumentare il proprio valore e quello di chi collabora con loro?
Certamente la visione per cui un editore bello grosso e potente debba avere come scopo quello di prendere a sè un citizen journalist, perché ha talento, con lo stesso stipendio di un caporedattore assunto negli anni ’80 è tutta sballata oggi.
I Social Media come semplice vivaio del giornalismo? Non ci farebbe muovere di un metro, non è quello che ci attende.

Quello che ci serve invece è un linguaggio comune che ci permetta di misurare il valore: di un’impresa editoriale, di un investimento, di un (citizen) journalist, di un contenuto, di un’iniziativa.
Questo linguaggio si definisce considerando tutti i fattori di scambio, non solo finanziari, in gioco sia per i progetti dall’alto che per quelli dal basso.
Altrimenti non ci si riesce a comprendere e il risultato è che le iniziative di avvicinamento da parte del grosso editore vengono scambiate per sfruttamento e quelle dei blogger per grande  generosità.
Spesso non è così, a volte è addirittura il contrario.

Certamente nel caso Reporter l’indicazione esplicita di 5 euro a contributo sarebbe stata discutibile (se non si fosse trattato di un errore di riscrittura), la correzione mostra un progetto quantomeno aperto ai contributi e disponibile, tutto da scoprire.
Se auspichiamo che il futuro degli editori sia imperniato sul digitale allora mettiamoci d’accordo: come indulgiamo verso i piccoli e i blogger così dobbiamo esserlo verso i più grandi (fino a prova contraria e valutando le competenze), come siamo attenti a cosa riceviamo in cambio dall’editore così dobbiamo esserlo anche molto verso i piccoli e i blogger.
Altrimenti staremmo già creando un modello di informazione tendenziosa e la possibilità di modellarlo o sfruttarlo a piacimento.


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