quando l’allarmismo su Instagram può essere utile agli utenti

Twitter ci potrà censurare?
Google ci potrà spiare?
Facebook ci potrà schedare?
Instagram potrà vendere le nostre foto?
Ad ogni cambio di TOS (i Termini di Servizio) dei più popolari social network si diffondono tra la gente timori sulla privacy e sui propri dati, soprattutto in Italia.
Il motivo per cui proprio in Italia siamo ossessionati dalla privacy su Internet e non allo stesso modo con altre modalità (banche, carte di credito, anyone?) meriterebbe un capitolo a parte, il bello è che questi timori sono tutti fondati.
Ebbene sì, siamo potenzialmente controllati, spiati, schedati ma non grazie all’ultimo aggiornamento dei TOS bensì fin dal primo momento in cui ci iscriviamo ad un social network e iniziamo ad inserire o creare contenuti.
Sono i Social Media, bellezza! si potrebbe dire.
O meglio, è la società digitalizzata in cui viviamo e dalla quale non si torna indietro.
Non basta dire che se non stai pagando il prodotto allora il prodotto sei tu, c’è dell’altro. Continue reading

la politica 2.0 è il ritorno alla politica con la gente

Questo articolo è stato pubblicato in Niente di personale su l’Unità online il 6 dicembre 2012 con il titolo “la politica 2.0 è il ritorno alla politica con la gente”

Il passaggio in Italia di Michael Slaby, Chief Integration & Innovation Officer della vittoriosa campagna Obama for America, sta fornendo lo spunto per una riflessione collettiva su consenso e tecnologia.
Senza dubbio i risultati di Obama rappresentano lo stato dell’arte per noi italiani (e non solo) e ci affascina il modo in cui viene usata la tecnologia per le campagne elettorali.
Questo, però, rischia spesso di portarci fuori strada e di farci concentrare troppo sugli strumenti più che sulle motivazioni alla loro base.
Probabilmente la grande importanza del canale televisivo in Italia, esaltato a destra e temuto a sinistra , ancora ci influenza fortemente ancorandoci a una realtà immaginaria in cui esistono solo strumenti con efficacia istantanea sul pubblico al servizio di una missione (post)ideologica indiscutibile e in cui, quindi, è determinante solo il modo, la tecnica e la tattica.
Ebbene questa realtà non esiste più neanche in Italia, ce lo sta mostrando Slaby stesso in questi giorni, la rivoluzione digitale ha cambiato le carte in tavola.
Non esiste più una comunicazione differenziata per canale, Internet non è semplicemente “un nuovo canale” o “un nuovo media”, oggi tutte le modalità di comunicazione sono integrate e ibride.
Basterebbe osservare quanto la stessa TV, la regina dei media, sta cambiando radicalmente col fenomeno della Social-TV online. Continue reading

#Primarie e Social Media: la nascita nuovi modelli e la predizione del voto

Dopo il risultato delle Primarie del Centrosinistra la luna di miele tra i Social Media e la politica in Italia sembra già essere finita.
Il candidato con meno appeal online, stando ai parametri più quantitativi, non solo vince a man bassa (60 a 40) ma in realtà secondo i sondaggi non è mai stato in discussione.
Ora c’è chi si affretta a dire che non solo la comunicazione online non sposta voti ma si dubita che possa avere qualche presa sul “Paese reale”, a giudicare dalla fetta di elettorato considerato storicamente più evoluto dal punto di vista dell’uso delle tecnologie.
Tutto era iniziato, in Italia, col referendum su acqua e nucleare a giugno 2011, snobbato come tante altre volte dai dirigenti dei partiti e dai mass-media ma giunto al successo anche grazie al passaparola online. Continue reading

il citizen journalist che fa bene all’editoria è quello credibile

Questo articolo è stato pubblicato in Niente di personale su l’Unità online il 20 novembre 2012 con il titolo “il citizen journalist da Gaza che si fa pagare in beneficenza”

La guerra a Gaza da una settimana ha già fatto più di centoventi morti tra i palestinesi e una decina tra gli israeliani.
In una situazione del genere fare informazione non è semplice, l’accesso dall’esterno è complicato, il lavoro degli inviati già presenti deve essere cauto per i bombardamenti.
È uno di quei casi in cui il lavoro del citizen journalist può aiutare, completare, arricchire l’informazione come accadde con le rivolte in Iran nel 2009.
Quando i movimenti sono limitati e i mezzi tecnici incerti il giornalismo dal basso può offrire un contributo attivo più importante, al di là del punto di vista, rispetto alle situazioni in cui l’accesso alle informazioni è universale e quindi la propaganda, di ogni segno, è più forte.
È il punto di vista che informa, nonostante tutto, e che si sta rivelando prezioso anche in questo caso a Gaza.

Tra i tanti attivisti sul campo che stanno raccontando la vita e la morte a Gaza sotto i bombardamenti uno dei più popolari è l’inglese Harry Fear, documentarista e attivista che si trova attualmente nella Striscia di Gaza.
Harry cura da maggio 2012 il progetto GazaReport.com per documentare “gli abusi di Israele sui palestinesi e la realtà di Gaza” e ha raccolto velocemente online 3500$ (più di quanti ne chiedesse) per coprire le spese, tornare lì dall’inizio di questo mese per fare volontariato e documentare la situazione.
Send me back, chiedeva, e molti follower gli hanno creduto soprattutto perché nel suo primo viaggio in giugno aveva già prodotto ben 8 mini-documentari, uniche testimonianze in inglese nel periodo successivo ai raid dei droni israeliani, mentre si pagava le spese lavorando come insegnante d’inglese.
Un esempio di credibilità, invece che di audacia e autopromozione, che ha ulteriormente ripagato i suoi lettori.
Proprio nel mezzo del suo viaggio si acuisce la crisi a Gaza ed Harry diventa un punto di riferimento per le notizie dalla Striscia.
Aggiorna costantemente su TwitterFacebook, mette su un canale su Livestream in cui fa frequenti dirette video (toccante quella di oggi in cui elenca tutti i morti palestinesi per nome ed età) che raccoglie in due giorni 47.000 Like e 20.000 tweet con più di 400.000 visualizzazioni.
Finché anche i canali broadcast se ne accorgono, Russia Today (canale all-news in inglese, vicino al governo russo) gli chiede di ingaggiarlo ed Harry fa una cosa saggia: chiede ai suoi follower (in particolare palestinesi) su Twitter e su Facebook (con un sondaggio) cosa fare.

 

La risposta è ampiamente positiva:

 

Ed eccolo far parte del programma CrossTalk, a cui aveva già partecipato, per portare il punto di vista della gente di Gaza.

È il futuro del giornalismo?
No, nonostante i timori l’informazione non si ridurrà ad essere poco più che volontariato e non sarà dominata dai punti di vista divergenti degli attivisti che, in un modo o nell’altro, se lo potranno permettere.
Oggi abbiamo, però, delle interessanti testimonianze che fino a qualche anno fa sarebbero state impossibili e che i giornalisti devono saper selezionare, valutare, dominare, usare, valorizzare, prendendosene la responsabilità come nuovo compito.
Non basta prendere qualcuno che ha racimolato decine di migliaia di follower, fargli fare qualcosa che suona alla moda e sperare che vada tutto bene.
I cambiamenti importanti di cui siamo testimoni rendono necessario aggiungere alla cassetta degli attrezzi di chi fa informazione uno strumento fondamentale: la credibilità.
Non è più l’emanazione diretta dell’autorevolezza giornalistica di vecchia data ma una condizione attiva e valutabile continuamente.
I lettori oggi controllano, ricordano, verificano, spesso gli stessi lettori sono autori altrove, i ruoli si scambiano e bisogna saper mantenere il valore di quello che si fa, perché non è più ovvio per nessuno.
È quello che Harry riesce a fare e su cui, poi, un broadcast può costruire informazione.

I singoli punti di vista informativi dei citizen journalist sono degli elementi che possono essere preziosi e vanno considerati ma per diventare giornalismo devono essere, oggi ancor di più, selezionati ed elaborati da un editore in modo da continuare ad avere un senso ed un contesto.
Proprio come ha fatto Russia Today con Harry Fear.
Questo è il modo in cui si dovrebbe evolvere l’editore tradizionale per contribuire a rendere il giornalismo ancora un business utile e sostenibile in futuro.

cose da non fare per informarsi sulla salute di Fidel Castro

1) Prendere per buone le informazioni di pubblicisti anticastirsti residenti a Miami.
Ma perché un anticastrista che vive a Miami dovrebbe essere la fonte ufficiale da cui determinare la salute di Fidel Castro?
È come chiedere informazioni sulla salute del Papa a una setta satanica.
Alberto Muller dice che Castro sta male da molti anni (in realtà è risorto per incontrare Benedetto XVI a marzo), è in morte cerebrale e tutto il mondo riprende il suo post come se fosse un lancio Reuters.
Siamo d’accordo che è difficile avere notizie dall’interno di un regime ma servirà qualche altra verifica?
Per esempio dagli inviati a Cuba.

2) Prendere per buone le informazioni di siti web antiregime.
Il sito web Neo Club Press, contrario al regime cubano, dice che ha degli informatori anonimi all’interno di un Ministero cubano che confermano la morte cerebrale.
Voci di informatori anonimi di un anonimo Ministero non è quello che definirei un indizio definitivo.
Forse è più affidabile un esperto di Cuba che possa interpretare i piccoli segnali nel Paese.
Se muore Fidel Castro non si mettono di certo a scrivere un comunicato stampa da far girare per i palazzi governativi.
Quando morì Andropov in URSS milioni di russi, e dirigenti del partito, ignorarono la sua dipartita per ben 6 mesi.

3) Telefonare a Yoani Sanchez.

Ora, con tutta la simpatia per la blogger rimpatriata dalla Svizzera che non è l’unica dissidente esistente a Cuba, se Fidel Castro fosse morto credo che lei sarebbe l’ultima persona al mondo a cui lo andrebbero a dire.

Insomma tutto questo assomiglia sempre più a un gioco delle freccette con le breaking news, nella speranza di fare probabilisticamente centro invece che tentare di fornire buona informazione.
Un gioco in cui, se va male, naturalmente si dà la colpa al web, alla Rete, a Twitter.

Google svela i suoi micropagamenti: rivoluzioneranno il giornalismo online?

Quello dei pagamenti dei contenuti digitali è da sempre il nodo cruciale per il superamento dei vecchi modelli di business per l’editoria online e lo sviluppo di quelli nuovi.
L’uso di veri micropagamenti è sempre stato considerato il punto di svolta, in questo senso e oggi Google può aver cambiato il corso degli eventi.

Il vecchio modello del “tutto compreso”, così naturale per i supporti del secolo scorso (non si può acquistare solo una sezione o una pagina di un quotidiano di carta e neanche avrebbe senso), si è trasformato online gradualmente nel modello del paywall.
Insomma non si può acquistare solo una sezione di un quotidiano di carta, una pagina di un altro, una copertina di un magazine, un editoriale di un mensile e neanche avrebbe senso farlo: nel mondo fatto di atomi o si acquista tutto o nulla.
Questo ha sempre implicato una certa rigidità nell’offerta e nella dieta informativa dei lettori.
Esistono lettori affezionati, forti identità di testata, c’è un limite fisico alla diffusione dei contenuti e c’è anche una certa forma di upselling forzato dei contenuti: se compro un quotidiano di carta per leggere il mio editorialista preferito, probabilmente sto pagando anche altra informazione di qualità molto inferiore.
Nel mondo degli atomi non si esce da questo schema classico e ancora oggi è il modello di riferimento per il business. Continue reading

il falso equilibrio nel giornalismo e la linea editoriale

La questione del falso equilibrio nel giornalismo credo che riassuma bene l’essenza del cambiamento che sta vivendo l’informazione, anche a causa dei Social Media.
Non a caso se ne parla sempre di più ultimamente, soprattutto in USA, come segnala un’ottima riflessione di Luca Sofri, molto meno – ahimè – in Italia.
Il falso equilibrio consiste nel rappresentare giornalisticamente due tesi opposte sullo stesso piano a prescindere dalla verifica dei fatti.
L’equidistanza e l’equilibrio come virtù superiore al fact-checking.
Ne è un esempio la litania delle opinioni dei nostri politici sul tema del giorno, mostrate in sequenza senza contraddittorio, sulle TV di Stato o generalmente i confronti tra i discorsi dei candidati presidenziali democratici e repubblicani sui media americani.

Questo atteggiamento che poteva sembrare persino conveniente nel giornalismo del secolo scorso, dove l’accesso alle fonti era riservato a pochi e la centralizzazione del processo giornalistico la faceva da padrone, oggi è detestato dai lettori e telespettatori.
Questi ultimi – e tutti noi – grazie all’accesso diffuso alle fonti, sono in grado di andare a verificare le affermazioni o, meglio, trovano facilmente online chi l’ha già fatto per loro.
Migliaia di blog e profili Twitter si occupano quotidianamente di questo, costituendo un nuovo tessuto informativo, ma ci sono esempi più strutturati come PolitiFact.com, condotto dal Tampa Bay Times (vincitore di un Pulitzer nel 2009), o Factcheck.org o persino un progetto destinato a verificare articolo per articolo un solo quotidiano, il New York Times Examiner.

A questo punto la questione diventa: basta tutto questo a migliorare il giornalismo o è solo l’allineamento dell’offerta a una nuova domanda?
In altre parole, chi verifica il fact-checker? Quanto deve essere lunga la catena di verifiche oggi per considerare un risultato accettabile?
Ultimamente nel valutare il fact-checking riserviamo più attenzione al “checking” e meno al “fact”.
Il primo è alla portata di tutti ma il secondo richiede una visione più ampia, quella del giornalista appunto.
L’accezione di ciò che può essere validamente considerato “fatto” si è indubbiamente allargata, a causa della tecnologia e delle interazioni online, e non dipende più solo da chi lo riporta.
È un fatto non più solo il risultato di un reporter o di un’Agenzia ma anche quello di un cittadino comune che scatta casualmente una foto, per esempio, di un aereo che atterra nell’Hudson a New York.
È un fatto sia la testimonianza oculare di un attivista durante le proteste in piazza Tahrir al Cairo sia il report di un giornalista nella stessa piazza che non ha visto quella cosa ma riporta una visione più ampia.
Ed è un fatto anche la dichiarazione ufficiale di un regime, in contrasto con entrambe.
Il rapporto tra fatti e verità dei fatti diventa molto più complesso e meno lineare.
Oggi racchiudere tutto in un’unica storia è quasi impraticabile, si possono al più raccontare molte storie o cercare di unire tutti i puntini.

L’altro fattore cruciale è il tempo.
Il fact-checking più profondo è generalmente dispendioso in termini di tempo: come si può produrre oggi una buona informazione verificata in un tempo accettabile?
L’informazione non deve rinunciare ad essere tempestiva solo perché esistono Twitter e Facebook ma deve poter scegliere subito la strada più adatta partendo da pochi elementi.

Queste questioni appaiono irrisolvibili ma in realtà una strada ci sarebbe, consiste in una forte affermazione di trasparenza verso il lettore derivante da una linea editoriale ben inquadrata.
La linea editoriale oggi viene usata molto spesso per posizionarsi esternamente al sistema informativo (soprattutto verso i poteri politici ed economici) o risultando abbastanza generica da permettere di avere ampli margini.
Con una linea editoriale chiaramente posizionata si possono selezionare i fatti, verificarli, assemblarli in una narrazione piuttosto rapidamente, individuare subito una strada di approfondimento e verifica.

Naturalmente il prezzo da pagare per risolvere questo dilemma è alto e non tutti i produttori di news sono disposti a farlo.
Non si tratta di assumere posizioni estreme o irresponsabili ma si tratta di ridimensionarsi dentro una rete, mostrarsi per quello che si è, di accettare di non essere più al centro del mondo ma di essere un mattone di un edificio, di non pretendere più di fornire ai lettori una visione universale ma una visione possibile tra tante nel mondo.

 

un modo nuovo di esplorare l’informazione

Quando iniziai a sperimentare l’aggregazione di news su Twitter nell’estate del 2009 il mio sogno era di condividere i filtri che raffinavo giorno dopo giorno mediante nuovi strumenti, in modo da partecipare tutti alla nuova visione comune dell’informazione.
Era l’anno delle rivolte in Iran, che cominciarono a scuotere il mondo arabo, in cui il crowdsourcing e il citizen journalism ci mostravano gli aspetti più crudi della nuova disintermediazione informativa e l’impostazione tradizionale cominciava a mostrare i suoi limiti.
I lettori e i cittadini stavano diventando attivi ma la consapevolezza di questo cambiamento nell’informazione non era ancora abbastanza condivisa (in particolare in Italia) e non esistevano strumenti di questo tipo.

Al contrario, da quei giorni ad oggi gli strumenti e i progetti si sono concentrati nel distribuire in maniera diversa e capillare i contenuti basandosi però sullo stesso modello di prima, personalizzandoli per ogni lettore e cercando disperatamente di diminuire l’information overload. Continue reading