C’era una volta il blog.
Eravamo nell’era 1.0 e nascevano i primi social network.
La gente poteva crearsi con facilità un proprio sito web in cui inserire riflessioni, scritti, prove artistiche e le conversazioni cominciavano ad allargarsi.
Ma soprattutto il blocco minimo di informazione reperibile sul web si iniziava a frammentare.
Si passava dalla lunghezza tipica del documento, dalla pagina web (statica) degli anni passati al singolo post (la pubblicazione di un contenuto su un blog).
Questi nuovi blocchi più piccoli di informazione potevano essere cercati indipendentemente sui motori e addirittura aggregati trasversalmente (tramite un’altra invenzione, i feed RSS) senza perdere la loro identità.
Con l’era del web 2.0 gli utenti, e non i siti, diventano il vero centro dell’attenzione, il valore dei contenuti inizia a spostarsi verso i contenuti aggregati collettivamente e nascono servizi che permettono alla gente di esprimersi in mille punti di vista attraverso qualsiasi formato e format.
Ma il processo di frammentazione non si ferma, e il blocco minimo di informazione arriva alla dimensione atomica: inizia il microblogging con Twitter.
L’utilizzo di tutti questi strumenti e la loro elevata fluidità ha lentamente cambiato il punto di vista delle conversazioni online e delle attività digitali fino ad arrivare alla possibilità di rappresentare coerentemente la nostra esistenza digitale non più con un unico servizio centralizzato (in cui convergevano commenti, riferimenti, differenti media ecc.) ma con una molteplicità di flussi (blog, Flickr, Tumblr, Youtube, Friendfeed, Facebook) riconducibili ad un’unica identità.
L’attenzione è sempre più focalizzata sull’utente al punto di passare dalla centralità dei suoi contenuti a lui stesso come contenuto centrale.
Il lifestream oggi è il campionamento della nostra vita analogica con la frequenza che decidiamo noi.
Non è un software, non ne esiste uno che abiliti il nostro lifestream, ma è un’evoluzione del nostro modo di comunicare in cui ogni campione digitale continua a essere ritrovabile, e lo dovrà essere sempre più.
I singoli campioni dei lifestream fluiscono velocemente formando nuove conversazioni non-lineari ma classificabili e ritrovabili che introducono un nuovo modo di comunicare non più per impulso (decido di conversare e quindi di diffondere i contenuti) ma per osmosi (vengo comunicato e quindi stabilisco un dialogo anche senza un impulso).
Questo ha due conseguenze importanti: 1) gli utenti tenderanno a campionare in qualsiasi momento e luogo, quindi il futuro molto prossimo non è per le tecnologie da tavolo (come i notebook) ma per quelle da palmo di mano (come gli smartphone evoluti); 2) le tecnologie di ricerca dovranno evolversi per seguire le comunicazioni nel lifestream, ovviamente Google parte avvantaggiata ma non è detto che riesca ad essere ancora lei la killer application.
Infine diventa necessaria una sorta di carta di identità, un riferimento unico per la nostra identità digitale.
Tutto questo significa la morte del blog? la domanda in sè non ha senso perché il blog già adesso non è più quello che conoscevamo prima.
Continuerà a essere parte integrante del lifestream come – probabilmente – il flusso a più bassa frequenza, il più riflessivo e per molti il proprio primo riferimento identitario.
In un certo senso il blog è già morto e già risorto.
Ma non meravigliamoci se le nuove generazioni digitali non lo useranno più così tanto.
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Bravo Luca. Gran bel post:)
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